Caro Giuseppe,

grazie per la condivisione della tua idea di Utopia e del paper.

Accolgo il tuo invito a elaborare la cosa almeno sul piano teorico, avendo toccato tra il 2010 e il  2015 il lavoro degli Ostrom in relazione alla 'e-democracy'.

Il riferimento alla analisi delle /common pool resources/ di Elinor Ostrom è molto utile, perché (nonostante confronto con comunità non territoriali sia ardua) consente di mettere a fuoco cosa serve a una comunità per essere autonoma nella gestione di una risorsa comune e farlo in modo sostenibile con sistemi autoregolantisi.

Come è scritto nella pagina web che hai indicato, Ostrom identifica otto /design principles/, ovvero principi generali comuni a tutti i sistemi istituzionali analizzati e che si riflettono in regole pur diverse tra loro //[1].

Internet e il Web ai loro esordi hanno seguito più o meno i /design principles/, ma chiaramente si sono sregolati quando esposti a tutte e cinque le /minacce/ identificate da Ostrom per le /common pool resources/, ovvero: (1) rapidi cambiamenti esogeni; (2) errori nella trasmissione dei principi della governance da una generazione all'altra, con particolare riguardo alle /ragioni/ che stanno dietro alle regole; (3) l'applicazione di programmi-fotocopia (/blueprint-thinking/) di progetti di successo associati ad ampie disponibilità di fondi anziché sulla base di conoscenze e con risorse locali; (4) corruzione e ricerca di rendite, specie collegate all'acquisizione di posizioni di potere; (5) mancanza di accordi di larga scala e istituzioni di ordine superiore, in particolare se sono necessarie infrastrutture materiali e normative di considerevole entità.

In particolare, il design aperto che ha caratterizzato i primi strati della pila di protocolli di comunicazione e i primi anni di sviluppo della rete, fino alla stagione ottimista culminata con il /wealth of networks/ di Benkler, si è interrotto con le piattaforme web chiuse e i walled garden degli smartphone, in cui la risorsa comune è stata in primo luogo estesa a utenti non socializzati ai principi (tema  toccato in lista sotto il nome formazione/alfabetizzazione) ed in secondo appropriata e monetizzata nel peggiore dei modi per via delle opportunità di guadagno. Il tutto in un vuoto normativo ed infrastrutturale in cui al posto di efficienza e sostenibilità si è massimizzato il profitto. La pietra tombale è l'applicazione blueprint-thinking del capitalismo della sorveglianza a qualsiasi nuovo progetto voglia essere finanziato.

Che lezione trarre? Forse che qualsiasi nuovo progetto di gestione sostenibile di risorse /common pool/ voglia continuare ad autoregolarsi in un contesto economico quale il nostro, deve essere assolutamente incapace di generare profitto.

ciao,

Alberto

[1] In modo meno sintetico che nella pagina WP questi sono:

(1) /clearly defined boundaries/, cioè confini definiti del sistema di risorse materiali, come acqua, legname, carbone, pascoli e collocate nel territorio in riserve di caccia, pesca, ecc. Le risorse sono chiaramente collegate ai diritti degli individui che vi accedono;

(2) /proportional equivalence between benefits and costs/ ossia regole che consentono agli individui di accedere alle risorse (quanto, quando, come) modulate in proporzione alle condizioni locali di input di materiali, lavoro, denaro;

(3) /collective-choice arrangements/ cioè la possibilità per chi è oggetto di regolazione di intervenire sulle regole stesse, per affrontare in modo partecipato e condiviso mutamenti nelle condizioni ambientali;

(4) /monitoring/ ovvero la presenza di individui (che possono far parte della collettività o meno) che sorveglino le risorse e gli utenti, spesso a rotazione;

(5) /graduated sanctions/ cioè punizioni per la violazione delle regole proporzionali alla gravità della violazione stessa, a partire da sanzioni così blande da essere puramente informative;

(6) /conflict resolution mechanisms/ ossia la presenza di arene locali e a basso costo in cui gli utenti possono risolvere i conflitti tra loro o con i rappresentanti ufficiali delle istituzioni, in base a regole chiare e ben note;

(7) /minimal recognition of rights to organize/, ossia la legittimazione a organizzarsi e darsi regole autonome con il minimo grado di ingerenza da parte di autorità statali o sovraordinate, in modo che le comunità siano in grado di sviluppare le proprie istituzioni in modo efficace e durevole;

(8) /nestled enterprises/, per cui le attività di appropriazione delle risorse, fornitura, monitoraggio, imposizione delle regole, risoluzione dei conflitti e governance sono organizzati secondo la scala in strati o livelli di iniziative “nidificate” o innestate una nell'altra, in particolare se le risorse sono estese.




On 25/09/23 11:33, Giuseppe Attardi wrote:
Sono d’accordo con Alberto, ma dirò di più.
Il modello di sfruttare anche economicamente, i risultati del lavoro e dei contributi della comunità sarebbe secondo me proprio la strada da seguire per contrastare il modello del profitto aziendale.

Ne ho accennato altre volte, ed è quello che chiamo modello delle Utopie Virtuali, ossia comunità che si organizzano in base a proprie regole, costituendo un bene comune, difendendolo e anche sfruttandolo a proprio beneficio. Il bene comune è gestito sotto forma di cooperativa, di cui i membri dell’Utopia sono soci, e quindi decidono sia le regole, che l’utilizzo del bene comune, la sua protezione e il suo sviluppo. Mi rifaccio agli studi della Nobel Elinor Ostrom (https://en.wikipedia.org/wiki/Elinor_Ostrom) o più anticamente alle Regole Ampezzane (https://it.wikipedia.org/wiki/Regole_ampezzane).

Nel mondo digitale i Commons potrebbero essere vari: l’insieme dei dati personali delle persone (da affidare a una Cooperativa di dati), lo spazio di discussione social, la stessa Internet (https://www.garr.it/it/documenti/1553-selected-papers-conferenza-2011-g-attardi <https://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&ved=2ahUKEwif_-2as8WBAxWliP0HHd5jCugQFnoECBEQAQ&url=https%3A%2F%2Fwww.garr.it%2Fit%2Fdocumenti%2F1553-selected-papers-conferenza-2011-g-attardi&usg=AOvVaw0BdjnGlrdyG2vZdK8jOQoa&opi=89978449>).

Un’Utopia dovrebbe andare oltre la cooperativa, e diventare una vera comunità, di livello sovranazionale e di dimensioni globali, tali da poter fare da contraltare alla grandi multinazionali e poter competere e contrattare con esse. Le grandi dimensioni sono necessarie per poter avere voce in capitolo, dato che ohe oggi il contrasto alle multinazionali passa per le nazioni e per organismi sovranazionali che non sempre sono in grado di tenere loro testa, visti i contrasti tra gli interessi in gioco (es. Minimum Tax). Gli stati westfaliani nacquero nel’600, prendendo atto che non ci poteva mettere d’accordo (https://en.wikipedia.org/wiki/Westphalian_system) e quindi lasciando che ciascuno facesse ciò che gli pareva in casa propria. Ma oggi il concetto di casa, legato alla geografia, nel mondo digitale globale non ha più molto senso e le nazioni si confrontano con organismi globali più grandi di loro, che rappresentano gli interessi trasversali del capitalismo, non più dei popoli.

Ogni Utopia avrebbe i suoi fini e principii.
Ad esempio, alcuni utenti potrebbero decidere di conferire i propri dati personali a una Utopia, delle cui politiche si fidano, magari con la tecnologia Solid (https://solidproject.org/about), che a sua volta negozia con le piattaforme le modalità del loro uso. Sarebbe vietato ad altri raccogliere dati sulle persone, ma dovrebbero richiederli esplicitamente alla Utopia di appartenenza. Per esempio, una Utopia potrebbe concedere i dati per usi in ambito di ricerca medica, altre non concederli in nessun caso.

L’idea è solo un abbozzo e andrebbe articolata meglio, se si ritiene plausibile.

Potrebbe essere una risposta anche alla domanda di Damiano Verzulli sul cosa fare: elaborare il concetto di Utopia e metterla in pratica, creandone alcune e invitando persone a partecipare.

— Beppe


On 25 Sep 2023, at 07:49, <nexa-requ...@server-nexa.polito.it> <nexa-requ...@server-nexa.polito.it> wrote:

Date: Sun, 24 Sep 2023 20:19:56 +0200
From: Alberto Cammozzo <ac+n...@zeromx.net>
To: 380° <g...@biscuolo.net>,nexa@server-nexa.polito.it
Subject: Re: [nexa] [OT] il modello di business di Wikipedia
(Wikimedia)
Message-ID: <dd4fc3ef-538a-7969-61d6-a20c1d9b2...@zeromx.net>
Content-Type: text/plain; charset="utf-8"; Format="flowed"

Caro Giovanni,

In estrema sintesi, la definizione di surveillance capitalism non
riguarda il fatto che uno ricavi denaro dai dati raccolti /dai/ suoi
utenti, ma che venda i comportamenti (passati o futuri) /dei/ suoi utenti.

A mia conoscenza Wikimedia non profila i propri utenti, non usa
recommendation systems per condizionarli, non adatta i contenuti a chi
ha davanti, e non mi risulta nemmeno che venda a terzi i dati dei propri
utenti, per cui il modello di business descritto dalla Zuboff come
/surveillance capitalism/ non si applica.

Grazie per gli articoli sul modello di business di Wikimedia,
interessanti. Mi pare però che delineino un modello tradizionale di
servizio premium a pagamento.

Un saluto,

Alberto


On 9/23/23 12:38, 380° wrote:
Buongiorno Alberto,

follow the money? :-)

Alberto Cammozzo via nexa<nexa@server-nexa.polito.it>  writes:

[...]

Attardi fa l'esempio di Wikipedia che è l'unica piattaforma
centralizzata di scala globale confrontabile con GAFAM e che non usa il
surveillance capitalism come modello di business.
Io preferisco la parola capture a surveillance perché rende meglio il
concetto (capture implica surveillance), ma è una /pignoleria/ :-)

Sono imbarazzato, non capisco perché sostieni che Wikipedia, o meglio
Wikimedia, non usa quel modello di "business", considerato - per dire
l'ultima - che ha appena lanciato il suo "Enterprise" service con
relativa azienda con sede nel... Delaware, ma ROTFL!

Wikipedia’s Deep Ties to Big Tech
By Michael Olenick APR 5, 2021

https://www.ineteconomics.org/perspectives/blog/wikipedias-deep-ties-to-big-tech

--8<---------------cut here---------------start------------->8---

Wikipedia’s online fundraising efforts that highlight its dependence on
donations for its continued functioning,[*] its assurance that it is
“super transparent with the public,” and occasional threats to run ads
to assure Wikipedia’s financial stability. Most users probably also
assume that Wikipedia’s content, even if sometimes mistaken or
incomplete, is basically harmless, with occasional errors the price of
straitened production conditions and limited staff. [...]

Wikipedia Is Wealthy & Works with Big Tech

Despite frequent protestations to the contrary, Wikimedia – the San
Francisco-based parent non-profit of Wikipedia – has enormous financial
reserves.

[...] implementing a new service, Wikimedia Enterprise, a for-profit
Delaware-based company to charge Big Tech for easier electronic access
to Wikipedia content.

Lest there be any ambiguity about who “these companies” are, they
explain high-volume commercial reusers include “the ‘infoboxes’ ..
shown in search engine results,” “voice-operated virtual assistants such
as Siri and Alexa,” and “augmented information .. such as in-flight
entertainment systems or smartphones.” For those who still don’t get it,
the term infoboxes links to a Wikipedia article about Google’s knowledge
panel.[1]

Wikimedia argues for-profit high-volume information “reusers” (its term)
have repeatedly asked for a dedicated service to efficiently funnel
information away from the site and money towards it. Big Tech wants a
contractual arrangement along with a service level agreement
(SLA). Wikimedia argues it is unable to offer a contract or provide an
SLA under its current legal scheme.

When asked, Wikimedia representatives responded that the Big Tech
businesses are uncomfortable supporting the non-profit through donations
and that they’d prefer a more explicit fee-for-service arrangement.[2]
Furthermore, the ongoing practice of embedding Wikimedia content into
the websites and information outlets of others deprives Wikimedia of an
ability to advertise for donations which, over the long-run, may impact
its ability to fundraise.

[...] Wikimedia Lacks Transparency

[...] Google’s former charity,Google.org <http://google.org/>, shuttered the year ending
2018.[9] Google made two large donations to Tides Foundation, a total of
$50,264,173 listed in their 2018 disclosure (consisting of three
donations: $43,844,348, $844,448, and $560,055) and $76,385,901 in
2017. Neither matches a line-item amount Tides Foundation reported for
the corresponding years.[10] Google also contributes money directly to
both Wikimedia and the Wikimedia Endowment, announcing a $7.5 million
donation at the 2019 Word Economic Forum.[11]

[...] While Wikimedia donates money to Tides – to support its endowment
and Knowledge Equity Fund (via Tides Advocacy) – Tides also donates
money to Wikimedia. However, the Tides donations do not appear in
Wikimedia annual reports [...]

--8<---------------cut here---------------end--------------->8---
(e /molto/ altro ancora nell'articolo)

Il suo primo cliente /pare/ essere Google:

--8<---------------cut here---------------start------------->8---

It’s not exactly clear how Google’s new partnership will change the
end-user side of things. Tim Palmer, the managing director of Google’s
search partnerships, vaguely commented that Google looks forward to
“deepening” its partnership with the Wikimedia Foundation through its
Enterprise service. Lane Becker, Wikimedia Enterprise’s senior director
of earned revenue told The Verge that the service is still in its “early
days” and declined to comment on specific ways Google might use it.

I would imagine that Google users probably won’t notice a change at all
— maybe we’ll see Wikipedia cited more often in knowledge panels or
perhaps Google will come up with a new way to integrate Wikipedia’s
information into its services. Google has made donations to the
Wikimedia Foundation in the past, but this marks the first time it’s
signing on as an actual customer.

[...] Wikimedia argues it currently subsidizes Big Tech by providing the
labor required for the coordination of information dissemination. The
implication is that there are resources at Wikimedia with an incremental
cost to feed data to Big Tech. A question asking for a guesstimate about
how many people spend how much time on this activity went unanswered,
along with all other written questions.

--8<---------------cut here---------------end--------------->8---
(https://www.theverge.com/2022/6/22/23178245/google-paying-wikimedia-foundation-information)

Mi pare suggerisca che abbiamo bisogno di alternative al modello di
business, e in questo la proposta di offrire gli stessi servizi con un
modello stile WP senza sorveglianza mi pare valida.
WP come Wikipedia?  Non credo proprio.

WP come WordPress? :-D

Scherzi a parte, ho la /vaga/ sensazione che potremmo star qui in eterno
a giocare di inventarci nuovi modelli di business senza mai risolvere il
problema (quale problema?)

In altri termini: cambiare modello di business in un mercato NON libero
come quello attialmente dominante (capitalismo) credo sia inutile.

Trovare modelli di business alternativi in un libero mercato credo sia
più efficace... libero per davvero però, non per finta come vogliono
farci credere i narratori delle magnifiche e progressive sorti del
capitalismo (in ogni sua declinazione: classico, finanziario, turbo, a
energia eolica, corretto grappa...).

Già, questo però non c'entra proprio nulla con la lista Nexa:
perdonatemi!

[...]

Saluti, 380°
_______________________________________________
nexa mailing list
nexa@server-nexa.polito.it
https://server-nexa.polito.it/cgi-bin/mailman/listinfo/nexa

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