Una discussione davvero interessante, grazie.


Il punto in parola può essere affrontato anche a partire da un libro che ha
fatto molto discutere, di Thomas Hägglund (Questa vita, 2019). Il libro
riprende il concetto marxista di “essere generico” (*Gattungwesen*),
illustrato dal giovane Marx nei *Grundrisse*:



Al pari degli altri animali dobbiamo soddisfare i nostri bisogni e
riprodurre la nostra forma di vita, ma *come *e* perché *dovremmo
soddisfare i nostri bisogni e riprodurre la nostra forma di vita è sempre,
almeno implicitamente, in dubbio. Noi non abbiamo la pura e semplice
consegna di riprodurre una data forma di vita ma siamo capaci di mettere in
discussione e cambiare il nostro modo di vivere. È per questo che la nostra
attività vitale è fondamentalmente un’attività libera (Hägglund 2019, p.
213).



Un leone, un cavallo o uno scimpanzé non si chiedono come costruire un
futuro più giusto *con* e *per* i propri simili. I primati non umani non
hanno *un senso* normativo di equità: anzi, sono gli scimpanzé ad accettare
offerte molto squilibrate (poniamo 1 chicco d’uva a me e 9 chicchi d’uva a
te, su un totale di 10 chicchi d’uva), mentre gli umani tendono a
rifiutarle perché eccessivamente squilibrate. Anche le loro azioni
coordinate e a prima vista “collettive” (per es. la caccia) sono in realtà
mosse dalla ricerca della massimizzazione individuale: non c’è un “soggetto
plurale” che le informa all’insegna del “Noi”.



Michael Tomasello ha condotto una serie di esperimenti dove ha mostrato che
le persone sono naturalmente inclini alla cooperazione e all’altruismo fin
da un’età molto precoce (1 anno) e, quindi, prima degli effetti di una
eventuale “socializzazione”. Senso di equità e capacità di collaborazione
per scopi comuni sono un tratto distintivo dell’essere umano e che non si
riscontra negli animali più simili a noi, come i primati. Secondo
Tomasello: “bisogna riconoscere che perfino i bambini più piccoli conoscono
una certa forma di intenzionalità condivisa, in altre parole, sentono di
far parte di una dimensione intenzionale più vasta, la cosiddetta
“intenzionalità del noi” (2010. 48). Il medesimo concetto è stato reso
celebre dal filosofo finlandese Raimo Toumela con la distinzione tra
*I-mode* e *We-mode* (2010). Sociologia e antropologia, con il tema dei
rituali dell’interazione, affrontano un tema analogo: il soggetto plurale
che “si pensa” come parte di un insieme – un gruppo, una comunità, un
territorio, un’organizzazione – e agisce di conseguenza. Identità
collettiva, comunità, riconoscimento, reciprocità sono alcuni dei concetti
tramite i quali il tema è stato classicamente affrontato nelle scienze
sociali.



Il tema riguarda quindi il senso legato all’*intenzionalità condivisa*. A
differenza dell’*intenzionalità *individuale, in cui una persona persegue
“individualmente” la propria percezione del “giusto”, nel caso di quella
collettiva un individuo può perseguire una percezione del “giusto”
collettivamente, partecipando a un gruppo composto da individui con
obiettivi simili.



Il “noi”, possiamo ulteriormente sostenere, è una promessa reciproca di
futuro o una promessa tra individui per un futuro-in-comune. Quando ci
promettiamo di andare in bici al parco insieme, poniamo la promessa
reciproca come antecedente a uno stato del mondo da realizzarsi (e di cui
fruire) insieme. Quando un collettivo di lavoratori si impegna per la
scrittura di un piano industriale – o quando gli abitanti di un paese
agiscono insieme per costruire una comunità energetica – realizzano una
promessa reciproca orientata alla realizzazione di uno stato futuro del
mondo. Quando ci si mobilita per un futuro diverso, giudicato migliore e
più giusto, si mette collettivamente in pratica una “capacità di futuro”.
Il “noi” e intenzionalità condivisa richiamano, come la definisce
l’antropologo Arjun Appadurai, la *capacità di aspirare* a un futuro comune
dove i bisogni individuali si intrecciano a concezioni della vita buona e
della libertà sostanziale delle persone di perseguirla.



Una macchina non potrà mai riprodurre il senso collettivo del “noi”, al
massimo approssimarlo come sintassi di una somma di “io”. Una macchina non
può immaginarsi un futuro più giusto dove gli androidi non sognano pecore
elettriche. Il genio di Philip K. Dick è stato quello di immaginare la
possibilità di oltrepassare questa soglia di specie.

ciao

Filippo

Il giorno sab 18 mar 2023 alle ore 08:10 Guido Vetere <
vetere.gu...@gmail.com> ha scritto:

> > Il segno non esiste come informazione astratta, ma fa parte di un
> /processo interpretativo/ che è prettamente _umano_.
>
> La caratterizzazione di questo "processo interpretativo" è il grande
> mistero filosofico che prende il nome di "teoria del significato". Dire che
> questo processo possa avvenire solo all'interno di organismi umani
> consociati, in una teoria del significato, si può dire solo in modo
> assiomatico. Un teorema che giunga a questa conclusione, in una teoria
> semiotica comunemente accettata, nessuno ce l'ha, che io sappia.
> Peirce (che peraltro parla di linguaggio in modo molto marginale) non
> avrebbe avuto difficoltà - credo - a dire che le sue ipotesi interpretative
> (abduzioni) potessero avvenire negli ingranaggi di un automa.
> C'è poi pure Wittgenstein che ha detto che comprendere una frase è come
> comprendere una melodia, cioè restando sul piano dell'espressione. Certo,
> non avrebbe - credo - mai sottoscritto la dissoluzione della semantica in
> pura combinatoria che avviene nei modelli neurali, però insomma questo è
> per dire che le vie del segno sono molte e molto tortuose, e la questione
> della capacità linguistica delle macchine di oggi non si può liquidare con
> una petizione di principio.
>
> Buona domenica,
> Guido
>
>
> On Fri, 17 Mar 2023 at 13:19, Alberto Cammozzo via nexa <
> nexa@server-nexa.polito.it> wrote:
>
>> Caro Enrico,
>>
>> anche io condivido la formulazione molto concisa ed efficace, in
>> particolare il fatto che proiettiamo noi ciò (il significato) che la
>> macchina non possiede.
>>
>> Aggiungo una precisazione sul piano semiotico e sulle conseguenze
>> politiche di questo nefasto inganno.
>>
>> Accettata la competenza sintattica e certamente quella lessicale,
>> possiamo anche ammettere che la competenza emulativa della macchina possa
>> sconfinare nella semantica, cioè che la macchina scelga termini all'interno
>> di un campo semantico in modo appropriato; ma quello che rende la macchina
>> completamente diversa dall'umano non è a mio avviso quel gradino della
>> scala semiotica, ma quello successivo, la pragmatica. E questo ha delle
>> conseguenze.
>>
>> Il segno non esiste come informazione astratta, ma fa parte di un
>> /processo interpretativo/ che è prettamente _umano_. Stiamo parlando di
>> cose che gli uomini _fanno_ nella loro vita sociale nel mondo.
>>
>> La semiotica di Saussure distingue tra significato e significante, ma
>> quella di Peirce aggiunge il referente, cioè ciò a cui nel mondo il segno
>> si riferisce. Se Saussure dice 'gatto' parla del _segno_ /gatto/ e
>> dell'immagine mentale del felino, cioè la rappresentazione psichica della
>> cosa. Per Peirce il referente è l'esistenza dell'animale che chiamiamo
>> /gatto/ nel mondo del quale abbiamo fatto tutti esperienza. Nel caso
>> dell'unicorno, esso vive in un mondo immaginale, ma altrettanto condiviso
>> nella pratica letteraria; mondo nel quale, ad esempio, nessun unicorno don
>> due corni è ammesso. L'associazione del suono e della rappresentazione è in
>> ogni caso il frutto di un "tirocinio collettivo".
>>
>> La macchina che emula la lingua calcola in modo verosimile la
>> distribuzione di probabilità dei significanti all'interno degli scritti che
>> produce, ed in questo modo induce l'umano a cogliere un significato
>> semanticamente appropriato perché lessicalmente corretto. Ma il punto è che
>> se anche la macchina può imbroccare alcuni significati (pur senza
>> possederne una immagine mentale), non è in grado di considerare in nessun
>> modo il mondo dei referenti, che invece è proprio quello a partire dal
>> quale l'umano _conosce_ il mondo, cioè lo sperimenta.
>>
>> La macchina non conosce, non apprende, non sa nulla di nulla se non la
>> distribuzione probabilistica dei significanti, perché (1) non vive nel
>> mondo a cui questi si riferiscono, (2) non possiede una mente che ospiti
>> concetti. Non abita né il mondo dei referenti, quello in cui i gatti
>> graffiano, né quello dei significati, in cui 'gatto' è un concetto con una
>> sua infinita ricchezza polisemica, ma solo quello dei significanti e delle
>> loro probabilità.
>>
>> Ma allora cosa fanno queste macchine linguistiche? Usando un _simulacro_
>> della lingua, operano "una sostituzione di ogni processo reale col suo
>> doppio operativo, che però offre tutti i segni del reale" (Baudrillard).
>> Sono un simulacro, un doppio mimetico completamente disfunzionale che però
>> è a disposizione di chi lo controlla e dei suoi interessi.
>>
>> Dobbiamo ricordare che la lingua è plastica, viene cioè formata dai
>> parlanti (o scriventi): l'atto della /parole/ degli individui parlanti fa
>> evolvere o stabilizza la convenzione della lingua. La lingua adottata dal
>> corpo sociale è plasmata dalle scelte linguistiche di chi la usa. Scelte
>> spesso controverse, come sappiamo da polemiche recenti e remote (dall'uso
>> del 'lei'/'voi' al genere).
>>
>> Ma non solo, la lingua è ciò con cui formiamo e scambiamo i concetti coi
>> quali rappresentiamo il mondo. E' lo strumento col quale pensiamo e
>> descriviamo il mondo, e siamo /obbligati/ a pensarlo e descriverlo con la
>> lingua che abbiamo a disposizione, se vogliamo pensare ed essere capiti.
>>
>> Per cui, cosa succede ammettendo questi simulacri, che possono essere
>> pilotati, nel processo di produzione della lingua? Banalmente, alcuni
>> termini o usi linguistici possono essere censurati, banditi, o al contrario
>> promossi, come avviene coi motori di ricerca, in cambio di denaro, a chi lo
>> chiede.
>>
>> Plasmare la lingua è sempre stato un potere usato dagli Stati, ora è un
>> processo industriale privatizzato alla portata del miglior offerente.
>>
>> Ciao,
>>
>> Alberto
>>
>>
>> On 17/03/23 10:26, Enrico Nardelli wrote:
>>
>> Mi è venuto in mente che ciò che fa ChatGPT è una sorta di realizzazione
>> pratica dell'esperimento mentale della Stanza Cinese di John Searle (
>> https://it.wikipedia.org/wiki/Stanza_cinese
>>
>> Ovvero, ChatGPT esibisce una competenza simile a quella degli esseri
>> umani sul livello sintattico ma è lontana anni luce dalla nostra competenza
>> semantica. Essa non ha alcuna reale comprensione del significato di ciò che
>> sta facendo.
>>
>> Purtroppo (e questo è un problema nostro di grande rilevanza sul piano
>> sociale) poiché ciò che fa lo esprime in una forma che per noi ha
>> significato, proiettiamo su di essa il significato che è in noi.
>>
>> Ciao, Enrico
>> --
>>
>> -- EN
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>> Prof. Enrico Nardelli
>> Presidente di "Informatics Europe"
>> Direttore del Laboratorio Nazionale "Informatica e Scuola" del CINI
>> Dipartimento di Matematica - Università di Roma "Tor Vergata"
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 Filippo Barbera, PhD

Professor of Economic Sociology,

Department of Cultures, Politics & Society, Univ.of Torino, Campus Einaudi

Fellow, Collegio Carlo Alberto

Honorary Visiting Professor, Cardiff University

Member, Forum Diseguaglianze e diversità

email: filippo.barb...@unito.it

twitter: @FilBarbera

Skype: filippo.barbera_to
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