Caro Giacomo,
condivido anche io il giudizio sul valore propagandistico del pezzo, con
il solito travestimento da "breaktough" epocale.
Ho qualche dubbio sulla classe dei programmatori. Se ho capito bene
escludi la riduzione in schiavitù dei programmatori e sostieni che
(visto che possiedono i mezzi di produzione) questi starebbero maturando
una "coscienza politica di classe" tale da minacciare (come un fantasma
che gira per il mondo?) le sicurezze del capitalismo della sorveglianza.
Mi rallegrerei di poter condividere questo punto di vista, ma il mio è
piuttosto lontano.
Per quanto ne so io, il software viene scritto prevalentemente in zone
del mondo o molto ricche (come in Silicon Valley) o molto povere (come
in Chennai o Bangalore), in cui i programmatori o hanno un potere
contrattuale individuale molto forte, o non ne hanno affatto, ma in cui
la coscienza di classe mi pare comunque debole. Quello di essere un
hacker che sceglie la propria licenza è un lusso.
Sarebbe come dire che l'industria della musica non ha potere sui
violinisti perché questi hanno il controllo del mezzo di produzione e
sono coscienti del loro statuto di artisti. Anche ammettendo le
premesse, una parte di loro saranno tanto ben pagati da sentirsi una
elite, e gli altri tanto poco da accettare quasi qualsiasi prezzo per un
ingaggio. Ci sarà anche un qualche bravo violinista che accetterà di
essere molto pagato per addestrare un modello ML che interpreti
qualsiasi pezzo al posto suo.
In ogni caso. il controllo della risorsa mi pare molto ben saldo in mano
a chi la controlla: non credo che l'industria del software tema nemmeno
lontanamente uno sciopero dei programmatori, non mi risulta nemmeno ce
ne sia mai stato uno.
Mi è parso significativo che a scrivere il pezzo che ho segnalato sia un
ex accademico di Harvard ed ex Google. Lo ho segnalato perché esplicita
un pensiero che ho da anni sulla natura industriale dell'"AI turn".
Seguendo le logiche industriali il machine learning consente di ridurre
i costi, ma soprattutto l'incertezza, standardizzando processi e
sostituendo programmatori che o sono locali, cari, scarsi e di difficile
scalabilità oppure remoti, relativamente economici e abbondanti ma
difficili da gestire, visto che l'outsourcing del software pone problemi
organizzativi, di comunicazione, di barriere culturali e linguistiche.
Welsh parla una lingua, quella di modello/serie, ben compresa
dall'industria: sarebbe come, per una manifattura di stoviglie
ceramiche, acquistare una macchina per stampi e liberarsi di decine di
tornitori: ne basta uno (bravo, da pagare una volta per il modello) che
faccia il pezzo sul quale modellare lo stampo.
L'aspettativa rivoluzionaria dell'impiego industriale del ML sta però
nel fatto che se nel modello industriale tradizionale il modello serviva
a generare la serie, ora si può al contrario costruire il modello da una
determinata serie, per poi poterla replicare all'infinito in una nuova
serie. Come dire: prendo 10 delle 57 uova Fabergé sopravvissute e ne
faccio un modello per produrne industrialmente a piacere.
Matt Welsh cerca di convincerci che possiamo sostituire interi team (in
Silicon Valley o in India) con una o due persone che fanno il vero
"intellectual work" (lo stampo, il modello), mentre il resto sarà fatto
dalle macchine, senza nemmeno le orde di "scimmie" necessarie per il
training:
The bulk of the intellectual work of getting the machine to do what
one wants will be about coming up with the right examples, the right
training data, and the right ways to evaluate the training process.
Personalmente non credo molto che questo renderà il lavoro di
programmazione inutile, dipende troppo dai contesti e ci sono altri
problemi che ancora non sono ben chiari o il cui impatto non è stato
misurato, ma la promessa è questa, liberarsi della complessità e della
variabilità introdotta da molti umani. Come diceva Daniela, prospetta un
futuro per chiuderne altri che siano diversi.
Vedo questa spinta nel mio lavoro di programmazione, che serve
potenzialmente a filtrare dati per addestrare modelli che rendano
ulteriori programmazioni inutili, con la promessa che una volta
azzeccato sufficientemente bene il modello, quello funzionerà per sempre
e sempre bene. Anche se è evidente che questi "modelli finali" non
esistono, sto pensando a qualche forma di obiezione di coscienza (una
licenza che escluda l'uso per training? ogni suggerimento è benvenuto).
Infine, la tua proposta mi pare essere quella che se tutti sanno
programmare, non ci sarà bisogno di modelli.
Condivido l'auspicio di una diffusa competenza di programmazione, come
quella che tutti sappiano suonare il violino e tornire l'argilla: sono
espressioni della creatività umana e della sua competenza. Sono
manifestazioni della sua libertà. Non troppi anni fa chiunque andasse a
scuola sapeva poi suonare, disegnare, usare strumenti e attrezzi:
imparava ad essere umano, insomma.
Anche se non credo che la maggiore offerta di programmatori competenti
possa scalfire la dinamica industriale sottostante il machine learning,
che è quella di liberarsi per quanto possibile dall'umano e
dall'incerto, tuttavia credo che possa almeno inceppare un'altra
dinamica industriale, che è quella della generazione di una scarsità
(quella di programmatori) come conseguenza del successo di un prodotto
industriale (il ML). Per rimanere negli esempi precedenti: il successo
della riproduzione musicale industriale riduce la domanda di orchestre e
quindi di violinisti.
In conclusione, per me il deficit non è tecnico né economico, ma morale;
non è di risorse, ma di valori. Non cosa facciamo e come, ma a che fine.
Baudrillard, che ha molto riflettuto anche sul sistema modello/serie, in
"il sistema degli oggetti" (1968!) scrive (scusatemi la lunga citazione):
Possiamo seguire le mitologie funzionali, nate dalla tecnica, fino a
quella specie di fatalità in cui la tecnica del dominio del mondo si
cristallizza in una finalità contraria e minacciosa. A questo punto
occorre:
1° Impostare nuovamente il problema della fragilità degli oggetti,
della loro defezione: se ci si offrono innanzi tutto come fonti di
sicurezza, fattori d’equilibrio, anche se nevrotico, sono tuttavia
contemporaneamente un fattore di delusione.
2° Rimettere in discussione l’ipotesi implicita della nostra
società: la razionalità dei fini e dei mezzi nel sistema produttivo
e nel progetto tecnico.
Sono questi due aspetti che concorrono alla disfunzionalità o alla
contro-funzionalità dell’oggetto: un sistema socio-economico di
produzione e un sistema psicologico di proiezione. E necessario
definire l’interazione e la collusione dei due sistemi.
La società tecnologica si regge su due miti potenti: il progresso
ininterrotto delle tecniche e il “ritardo” etico degli uomini
rispetto alle tecniche. I due aspetti sono solidali: la
“stagnazione” morale trasfigura il progresso tecnico, unico valore
sicuro, rendendolo l’istanza definitiva della nostra società:
immediatamente il sistema produttivo rimane senza colpe. Sotto la
copertura di una contraddizione morale, si evita la contraddizione
reale: proprio il sistema produttivo si oppone, mentre lavora, a un
progresso tecnologico reale (e dunque a una ristrutturazione dei
rapporti sociali). Il mito di una convergenza ideale delle tecniche,
della produzione e del consumo maschera tutte le controfinalità
politiche ed economiche. Ma come può progredire armonicamente un
sistema di tecniche e di oggetti mentre il sistema di rapporti tra
gli uomini che le producono è stagnante o addirittura in
regressione? Uomini e tecniche, bisogni e oggetti si strutturano
reciprocamente in bene o in male.
Ciao,
Alberto
On 26/12/22 10:27, Giacomo Tesio wrote:
Più che problemi di scala, credo che l'industria sia seriamente preoccupata
dalla crescente coscienza politica dei programmatori.
Una coscienza politica che può modificare i rapporti di potere, visto che gli
informatici
hanno pieno controllo dei mezzi di produzione fondamentali per la propria epoca,
saldamente ancorati sul collo.
Oggi è importante convincerli di essere sostituibili (da cui quel pezzo di
propaganda),
ma il sogno di chi controlla gli altri strumenti di produzione è poterli
possedere completamente.
E visto che la riduzione in schiavitù dei programmatori al momento è fuori
discussione,
tutto ciò che possono fare è investire i propri capitali per costruire
programmatori di cui
si possano legalmente appropriare.
D'altro canto, per quanto fantasiose siano queste velleità, ignoranza e
propaganda
le fanno apparire realistiche.
Mentre quando qualcuno fa notare che esistono scenari alternativi ben
più realizzabili, viene definito "idealista".
D'altro canto, se il sogno dei capitalisti della sorveglianza è che nessuno
sappia
più programmare, l'idea che lo sappiano fare tutti è un vero incubo!
Pensa che succederebbe ai loro business model o al loro potere!
Per questo progettare un mondo in cui tutti sanno programmare deve apparire
una perdita di tempo, mentre progettare un mondo le cui regole fondamentali sono
opace e "realizzate da algoritmi" deve apparire come investimento nel progresso.
Giacomo
On December 25, 2022 9:27:20 PM UTC, Alberto Cammozzo via
nexa<nexa@server-nexa.polito.it> wrote:
Non credo che questo accadrà, ma credo che sia uno dei desideri dell'industria
ICT quello di rimpiazzare il processo di programmazione, che presenta diversi
problemi di scala, con qualcosa di più gestibile industrialmente.
<https://cacm.acm.org/magazines/2023/1/267976-the-end-of-programming/fulltext>
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