qui sotto la conversione speech-to-text fatta con whisper, segmentata
con chatGPT a seguito di prompt specifico.
nessun intervento di editing.
secondo me avere il testo aggiunge valore (insegno, quindi pur vivendo
di oralità ho un bias positivo verso il testo)
perché permette di scorrere, fermarsi su contenuti specifici, tornare
rapidamente a un contenuto specifico, citare, rileggere, gestire il
tempo necessario/impiegato per avvicinarsi al contenuto informativo,
riusare, ...
Maurizio
Il 18/11/24 16:56, J.C. DE MARTIN ha scritto:
Vi segnalo questa lucida, incisiva lezione del collega e amico Benedetto
Ponti (Università di Perugia), su un tema che mi sta particolarmente a
cuore:
Benedetto Ponti, "Disinformazione contro libertà di espressione"
https://youtu.be/rL3f2X_SPH8
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Scusate sono le 9.05 quindi io sono in anticipo di 10 minuti perché noi
abbiamo come requisito professionale il quarto d’ora accademico.
Stamattina cercherò di essere del tutto scontato, banale, la metà di voi
queste cose le ha già sentite, probabilmente le ha anche già capite,
quindi semplicemente io mi limiterò a ripeterle, le voglio solo mettere
in fila.
Questa è la tesi. La tesi è questa che se noi usiamo il concetto di
disinformazione che adesso cercherò di illustrare come meccanismo
giuridico per determinare quali discorsi sono ammessi, quali no, se
facciamo così la libertà di espressione semplicemente è negata, è negata
in radice, che significa che ho libertà di informazione o
disinformazione, c’è poco da fare.
Negata in radice, la libertà di informazione si può regolare, anzi nel
nostro ordinamento è pacifico che si possa regolare perché se io adesso
uso qualche espressione offensiva nei confronti di Alberto e dei suoi
avi, ce ne sono a iosa, sarebbero motivi per farlo ovviamente, lui
dispone degli strumenti giuridici per tutelarsi perché esistono dei
limiti a quello che si può dire. Detto ciò però, siccome stiamo parlando
di una libertà fondamentale e qui mi appoggio alle categorie che sono
state elaborate in sede di Corte Europea dei diritti dell’uomo, così
come dire siamo al di sopra di ogni sospetto, sono le loro categorie non
le nostre, bisogna preservare un nucleo minimo della libertà di
informazione, se per come viene limitata questo nucleo minimo scompare
la libertà non esiste più.
Secondo punto, perché, cosa giustifica la limitazione della libertà di
informazione? Qualsiasi cosa? No, se voi vi prendete l’articolo 10 della
Carta dei diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa trovate un, ahimè, un
po’ troppo lungo elenco di diritti e interessi che giustificano la
limitazione della libertà di informazione, ma è un elenco, a un certo
punto finisce, sono quelli che possono giustificare la limitazione della
libertà di informazione, non qualsiasi cosa ci venga in mente o venga in
mente a un qualche legislatore, più o meno sprovveduto.
Andiamo un po’ più in profondità, che cos’è la libertà di espressione?
Io qui vi parlerò soprattutto, anzi esclusivamente, della libertà di
espressione attiva, quello che noi facciamo qui da 13 anni
sostanzialmente. Dopodiché esiste anche la libertà di espressione
passiva, il diritto di ricevere le informazioni e anche quella
riflessiva, cioè di andarseli a cercare. Ovviamente queste due sono una
conseguenza logica e giuridica della prima, se nessuno parla nessuno
ascolterà niente e avrà la possibilità di andarsi a cercare alcunché,
per cui quella più importante è la prima.
Ora, vediamo da noi, da noi dico qui in Europa, di qua dall’Atlantico,
quali sono tradizionalmente i limiti alla libertà di espressione, più
che altro come funzionano. Allora, in generale è sanzionato un discorso
che lede effettivamente il bene protetto, non l’ipotesi, la possibilità
futura che quel bene possa essere pregiudicato. La diffamazione,
l’esempio che ho fatto prima, Alberto si può dolere e quindi tutelarsi
se io effettivamente lo ho offeso.
E così, esempio, visto che stamattina c’erano un po’ di giornalisti,
nell’esercizio del diritto di cronaca si possono usare i dati personali
solo se essenziali alla notizia che si vuole raccontare, se invece si
eccede, si sta ledendo la tutela della privacy e la tutela dei dati
personali, ma solo se lo si fa, se quei dati vengono utilizzati, se è
una cosa effettiva. E poi qui potremmo continuare con gli esempi.
Per capire questo punto, nel nostro codice penale, all’articolo 656, c’è
un reato che sembrerebbe contraddire quello che vi ho appena detto,
chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose per
le quali possa essere turbato l’ordine pubblico.
Cioè qui la lesione dell’ordine pubblico non è avvenuta, non è fattuale,
questo è un classico reato di pericolo, si vuole evitare che si
verifichi una situazione nella quale poi l’ordine pubblico possa essere
turbato. Però attenzione, la Corte Costituzionale, quando ha
interpretato la norma del codice penale, per considerarla compatibile
con la libertà di espressione, ha detto che questo si applica solo a
fatti raccontati e che sono fatti falsi, e poi esagerati e poi tendenziosi.
Se invece sono fatti veri, questa fattispecie non si applica. Cioè i
fatti veri, idonei eventualmente a turbare l’ordine pubblico, non sono
sanzionati da questo articolo, perché sono veri. Questo ci tornerà utile
tra poco.
Vediamo un po’ come funziona questo meccanismo della disinformazione.
Una cosa che avrei potuto fare è quella che ha fatto ieri Vladimir,
prendermi la Treccani e andare a vedere che cosa si dice della
disinformazione. È simpatico perché se voi prendete la definizione di
disinformazione nella Treccani o in vari dizionari più o meno giuridici,
scoprite che la definizione di disinformazione è identica a quella di
propaganda.
Per farla in maniera un po’ più raffinata, prendiamo la definizione di
disinformazione che utilizza il regolatore europeo, questa è la
comunicazione della Commissione Europea del 2018, che poi è la nozione
di disinformazione che viene utilizzata nel codice di comportamento
delle grandi piattaforme per contrastare la disinformazione e così via.
Questo è alle origini.
Cos’è la disinformazione? È un’informazione falsa, fattualmente falsa, o
misleading, ingannevole, creata, presentata, disseminata o per farci
soldi o per intenzionalmente sviare, ingannare il pubblico e che può
determinare public harm, un pregiudizio pubblico.
La disinformazione scatta, questo meccanismo scatta, cioè l’ordinamento
riconosce questa cosa che chiama disinformazione non solo se l’oggetto
che viene narrato è falso, ma anche se l’oggetto che viene narrato è
vero, perché qui c’è una disgiuntiva e quindi è sufficiente che quello
che viene raccontato venga interpretato come misleading, dopodiché è
anche un fatto vero, ma io te lo sto raccontando in modo ingannevole.
Questa era la nozione originaria dove c’era intenzionalmente, poi quando
la Commissione ha chiesto e ottenuto dalle big tech di riscrivere il
Code of Practice on Taking Disinformation nel 2022, nella nozione di
disinformazione ci ha messo anche quella di misinformation e
misinformation è una cosa più ampia perché misinformation, false or
misleading content shared without harmless intent.
Cioè quando voi condividete online qualcosa che pensate sia vero o
pensate che sia utile condividere, non avete intenzione di ingannare
nessuno, siccome può forse nel futuro determinare un qualche danno,
adesso vediamo a che cosa è misinformation, nel 2022 è stata messa
dentro la nozione di disinformazione, quindi qualsiasi cosa voi facciate
in buona fede comunque non va bene. E anche se è vera, vera in buona fede.
Che cosa si protegge? Cioè quando il legislatore europeo dice “may cause
public harm”, quali sono questi “public harm”? Eccoli qua: minacce al
processo politico democratico, minacce al policy making democratico e
minacce ad alcuni beni pubblici, la protezione della salute, la
protezione dell’ambiente, la protezione della sicurezza.
Ora di qua io vi ho messo, quella che citavo prima, l’articolo 10 della
Carta Europea dei diritti dell’uomo del ‘50, in cui c’è al comma 2 la
lunga elencazione delle ragioni che possono giustificare una limitazione
delle libertà di informazione e uno fa il confronto e dice “va bene,
protection of security, forse sicurezza nazionale ci sta, forse
integrità territoriale ci sta, forse l’ordine pubblico c’è, forse la
protezione della salute c’è”. La protezione dell’ambiente io non la vedo
qui, io qui non c’è, per non parlare di processi politici democratici o
il policy making democratico.
Cioè in questa lista pur lunga, una lista corposa di limiti potenziali
alla libertà di informazione, questi due non ci sono, l’ambiente non c’è.
Facciamo il punto. Nello schema tradizionale quindi sono sanzionati,
possono essere limiti alla libertà di informazione, danni effettivi,
attuali. Con la disinformazione sono sanzionati danni potenziali futuri.
Schema tradizionale: i danni agli interessi pubblici non sono sanzionati
se possono essere prodotti dalla narrazione, dal racconto, da un
discorso di un fatto vero. Non possono essere sanzionati perché il fatto
narrato è vero.
Nella nozione di disinformazione la questione che il fatto sia vero non
incide, si può essere disinformatori come noi siamo da 13 anni anche se
raccontiamo cose vere. Gli interessi pubblici protetti quando si applica
un limite alla libertà di informazione nello schema tradizionale sono un
numero chiuso, è una libertà. Quando si può comprimere lo deve dire il
legislatore costituzionale, la convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Non è disponibile al legislatore individuale qual è la ragione che
giustifica la limitazione della libertà di informazione. Nella nozione
di disinformazione la lista delle ragioni che possono concorrere a
impedire che una informazione circoli è una lista aperta. Abbiamo visto
che in quella nozione sono state aggiunte delle cose che nell’articolo
10 della Carta Europea dei diritti dell’uomo non c’è.
La tradizionale definizione dei limiti alla libertà di informazione non
ne azzera lo spazio di esercizio. Una volta che tu li hai applicati
tutti comunque c’è un ambito all’interno del quale c’è qualcosa che è
protetto, che si può comunque dire e guardate che questo spazio che
rimane disponibile è coperto da una libertà fondamentale.
Lì l’ordinamento non è neutro, non è indifferente. Lo spazio che rimane
disponibile è una libertà fondamentale. Nella nostra tradizione
costituzionale queste libertà vengono prima dell’ordinamento.
L’ordinamento le riconosce, non le fonda. E quindi una volta che le ha
riconosciute come fondamentali non solo non le limita oltre un certo
livello, quando c’è l’attività lecita dell’esercizio di una libertà
fondamentale l’ordinamento la promuove, la protegge, la tutela.
Il punto è che questo spazio minimo nella nozione di disinformazione
sparisce del tutto. Perché se non è necessario che sia falso ma è
sufficiente che sia fuorviante il racconto di un fatto, di una questione
vera, che cosa è fuorviante? Il margine per identificare che cosa è
fuorviante coincide con lo spazio della libertà di opinione di chi
formula questo giudizio. Io nell’esercizio soggettivo della mia libertà
di opinione dico che quel discorso è fuorviante.
Sto esercitando la mia libertà di opinione. Ho azzerato la tua libertà
di espressione. Questo era il punto a cui volevo arrivare. Se noi
concepiamo la disinformazione come qualsiasi discorso fuorviante che può
forse in futuro determinare un qualche pregiudizio a una lista aperta di
beni protetti, non c’è più nessun presidio a una libertà minima di
esprimersi. Non c’è. Perché? Perché qualsiasi discorso, a prescindere
dalle sue caratteristiche intrinseche, ma semplicemente sulla base del
giudizio di chi lo osserva, può essere considerato disinformazione.
Tutto può essere disinformazione. Per la verità, tutto è
disinformazione. Non è sufficiente affacciarsi sui social e vedere che
cosa viene quotidianamente disconnesso, eliminato, demotivato, eccetera.
Tutto, a seconda della contingenza. Non è che stiamo parlando di una
potenzialità. La cosa sta già avvenendo da anni in maniera massiccia.
Quindi la disinformazione così costruita, e così è costruita
dall’ordinamento dell’Unione Europea, consente di contrastare discorsi e
contenuti che sono altrimenti leciti. Lo fa allo scopo di proteggere
beni estranei a quelli che possono giustificare la libertà di
espressione e lo fa per proteggere questi beni da pregiudizi che non
sono attuali. Sono “vedremo, può darsi che succeda qualcosa di grave”.
Facciamo un po’ di esempi. A me personalmente quale sia l’origine del
virus interessa. Non so qual è, non lo so. Non voglio dimostrare
assolutamente qual è. Però fra febbraio e marzo del ‘20, ci è stato
detto in autorevoli, autorevolissimi sedi, questo è di Lancet, che si
trattava di un’origine naturale. Era così, punto. Non c’era dibattito
scientifico sul punto. Tutti gli scienziati erano d’accordo su questo
punto. Chi diceva qualcosa di diverso stava disinformando.
Conseguenza: è finita questa notizia, cioè l’idea che si potesse
argomentare che no, ma guarda, è venuta fuori proprio in quella città
cinese dove ci sono 5-6 laboratori che lavorano da anni su quel virus.
Però viene da un pipistrello che si è leccato, non so quale animale, a
mille chilometri di distanza. Io, applicando il rasoio di Occam, non so
niente, però se devo scegliere.
E quindi nella lista delle cose da bloccare, secondo le indicazioni del
piano pandemico sulla disinformazione dell’Unione Europea, c’è anche
questa. Infatti, tra gli esempi c’è quello della Blick e le piattaforme
si sono immediatamente adeguate. Per cui questa è l’informativa che ha
dato Meta nel febbraio del 2021: da oggi in poi rimuoviamo ogni
qualvolta qualcuno prova a dire, argomentare, sostenere, condividere in
buona fede e così via, ma non è che sto virus è fuggito, è scappato per
errore da un laboratorio nel quale veniva conservato perché ci stavano
lavorando, stavano studiando. E quindi giù, tutto giù.
Io ho fatto la prova, provavo a postare per vedere che cosa succedeva e
non mi veniva caricato e mi compariva il disclaimer: “Guarda che questa
cosa è gravissima, non la puoi dire, se lo rifai ti sospendiamo
l’account”. Poi a un certo punto il complotto, la bufala,
improvvisamente diventa una ipotesi sulla quale tutto sommato vale la
pena di discutere. In particolare perché uno studio della CIA sostiene
che in effetti non esistono prove e così via. E quindi Facebook aggiorna
le sue regole, dice: “Va bene, da oggi in poi, siccome pare che sia una
cosa di cui sia giusto discutere, non le tiriamo più giù”.
Yes, dear. De nada. E poi il nostro amico Zack, dai capelli rossi, ha
scritto al Congresso degli Stati Uniti e gli ha detto queste belle cose.
Nel ‘21, dei funzionari dell’amministrazione Biden, inclusi i funzionari
della Casa Bianca, hanno fatto pressioni sul nostro team per censurare
contenuti del Covid-19, compresi contenuti di humor e satira. E erano
anche un po’ incazzati con noi perché non li censuravamo abbastanza.
Poi, alla fine, la decisione se tirarli giù oppure no è stata nostra, ma
penso che quelle pressioni del governo siano state sbagliate, e I regret
that we were not more outspoken about it. I also think we made some
choice that with the benefit of hindsight and new information we
wouldn’t make today. Se lo avessimo saputo, che questa notizia non era
così infondata, valeva la pena di discutere, erano presenti elementi che
suggerivano che magari noi non l’avremmo fatto.
Ma come? Fino all’altro ieri era sicuro, era certo. Cioè, capite che un
meccanismo che è costruito sulla base di “io oggi ti vieto di dire una
cosa perché penso che in futuro provocherà dei danni” e poi nel futuro
si scopre non solo che non ha provocato nessun danno, ma che valeva la
pena di discuterne, è proprio la negazione radicale che è il punto di
partenza del nostro discorso della libertà d’informazione.
Nella letterina che Zack ha scritto al Congresso ammette anche che Meta,
Twitter, allora, tutti quanti, a una settimana dal voto nel 2020 per la
Casa Bianca, quando il /New York Post/ ha pubblicato la notizia che sul
laptop di Hunter Biden c’era una serie di informazioni, non che si
faceva di cocaina pure, ma che faceva da broker per conto di “lasciamo
perdere” con l’Ucraina.
Si tratta di disinformazione russa, è un tentativo di condizionare
dall’esterno le elezioni americane e quindi questa notizia è passata
sotto silenzio. Vi ricorderei che quelle elezioni politiche
presidenziali sono finite in un certo modo per un’anticchia dei voti in
qualche staterello qua e là. Quindi che questa notizia abbia circolato,
oppure no, una certa incidenza sull’andamento del mondo, tipo le cose di
cui abbiamo parlato ieri, la guerra ce l’ha avuta.
Zack dice che anche quella, se avesse saputo come stavano le cose, non
l’avrebbe tirata giù, l’avrebbe lasciata circolare. Ah, interessante.
Nell’economia del discorso. Prima Vladimir qui in prima fila ha detto:
“E poi dipende da chi è che lo fa, chi è che decide che cos’è
disinformazione”. Ecco, la guerra e la disinformazione, oddio, per la
verità ormai la fanno direttamente i governi. In Inghilterra la fa il
governo. Hanno messo in galera delle persone perché hanno postato
durante dei riots due o tre mesi fa dei post ritenuti non solo odiosi
con contenuto di odio, ma anche perché incitavano sulla base di notizie
false o tendenziose la folla.
Ma attualmente, siccome l’Inghilterra è fuori dall’Unione Europea, noi
stiamo sul terreno dell’Unione Europea, quello che ci compete, nel quale
siamo coinvolti direttamente. Chi combatte la disinformazione in realtà
formalmente lo fanno le piattaforme. Lo fanno, come dice Zac, perché
costrette dai governi? Noi non vorremmo, ma ce lo chiede l’Europa. O si
tratta di un matrimonio di convenienza? Va bene.
Adesso, senza necessità di rispondere sulle intenzioni, senza fare il
processo alle intenzioni, soprattutto perché si tratta di un contenuto
tipico della nozione di disinformazione, il processo alle intenzioni,
poi perché qui il direttore del comitato scientifico mi ha tirato su
invitandomi a evitare di fare i processi alle intenzioni, non è utile.
Il punto è che quella regolazione che vi ho descritto è operativa perché
è recepita nei terms of service delle piattaforme, cioè formalmente in
contratti che gli utenti accettano. Tutte le volte che voi vi affacciate
su un qualsiasi social network, state già accettando di essere
condizionati, regolati da questo genere di costrutti.
Che è molto interessante, perché in questo modo il lavoro sporco lo
fanno le piattaforme. Per una ragione decisiva, queste cose nella legge
non si possono scrivere perché ancora salterebbero domattina, per le
ragioni che vi ho descritto. È incompatibile con la libertà di
informazione, non si può scrivere nella legge che la Corte
Costituzionale interpreta nel senso opposto.
Si trova di fronte un articolo del codice penale che sembrerebbe dire
una cosa del genere, ma per renderlo compatibile con la Costituzione lo
reinterpreta dicendo: “No, no, solo notizie false”. Invece nei rapporti
fra i privati questa cosa si può fare, io questa regola contrattualmente
la posso subire perché l’ho accettata, ho prestato il mio consenso.
E quindi i terms of service servono a consentire al potere pubblico di
fare ciò che non potrebbe fare come potere pubblico e schermandosi con
le piattaforme riesce a fare. Noi siamo andati molto avanti su questo
schema perché il Digital Services Act è la istituzionalizzazione di
questo meccanismo.
Le piattaforme molto grandi, quelle con più di 45 milioni di utenti,
quelle che ci interessano, quella che ci sta trasmettendo in questo
momento in diretta streaming su YouTube, quella su cui stiamo
condividendo i contenuti su X, secondo la legislazione europea devono
fare la valutazione del rischio tutti gli anni e nel fare la valutazione
del rischio verificare se i sistemi di moderazione dei contenuti, cioè
l’applicazione dei terms of service, sono adeguati a certi scopi.
Quali scopi? Dove è finito? Tra le cose che i terms of service devono
regolamentare per attenuare i rischi ci sono esattamente quelle che
abbiamo visto prima: rischi per il condizionamento del processo
democratico, rischi sul policy making, rischi sulla salute, rischi per
la tutela dell’ambiente.
Gli stessi contenuti che ci sono nella definizione di disinformazione
coniata dalla Commissione nel 2018 nel Digital Services Act sono
applicati per verificare se le piattaforme si comportano bene oppure no.
E se le piattaforme non si comportano bene, la Commissione può
costringerle a comportarsi bene, gli può fare una sanzione.
Quindi siamo oltre lo schema del mero schermo, cioè il fatto che fai tu
per me, ma se non lo fai io ti vengo a cercare, tu lo fai per me perché
io Commissione non lo posso fare, io potere pubblico non lo posso fare,
lo fai tu per me, ma se tu non lo fai io ti vengo a cercare, ho messo in
piedi un sistema sanzionatorio per venirti a cercare.
La ragione dello scontro attuale tra Musk e la Commissione è esattamente
questo. Per tornare alla domanda dell’intervento di Geminello di ieri
pomeriggio, di ieri sera: come siamo arrivati a questo punto? Una delle
ragioni per le quali siamo arrivati a questo punto è che le corti
superiori europee – per una volta le nostre corti superiori, la Corte di
Cassazione e la Corte Costituzionale, non c’entrano, forse perché il
problema glielo hanno risolto a monte – è la solita dinamica del vincolo
esterno.
Le corti superiori europee, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Corte
di Giustizia dell’Unione Europea, dall’inizio del secolo hanno
cominciato a dire: “I sistemi con i quali tradizionalmente abbiamo
ammesso la limitazione della libertà di informazione sulla carta
stampata, in televisione, nei mezzi tradizionali, per internet non vanno
bene, sono troppo laschi. Perché internet è più pericoloso e quindi in
quell’ambiente si giustificano controlli, limitazioni, regolamentazioni
più stringenti all’insegna del ‘questa volta è diverso’”.
Guardate che cosa scriveva la Corte Suprema. Certo, il framework
normativo è radicalmente diverso: il primo emendamento della
Costituzione statunitense tutela la libertà di informazione, punto, non
ammette alcun tipo di limite. Ma l’approccio a internet della Corte
Suprema statunitense è questo: “Come questione di tradizione
costituzionale, in assenza di evidenze contrarie, noi presumiamo che una
regolamentazione governativa del contenuto dei discorsi più
probabilmente interferirà con il libero scambio di idee piuttosto che
incoraggiarlo. L’interesse nell’incoraggiare la libertà di espressione
in una società democratica è molto più importante di ogni teorico ma non
provato beneficio della censura”.
Questo è quello che dice la Corte Suprema degli Stati Uniti. Qui sì che
c’è un divario atlantico, radicale. Guardatevi quando è questa sentenza.
Non è casuale se Google, Meta, e le altre grandi aziende sono
statunitensi. Non è affatto casuale. E infatti questo approccio alla
libertà di espressione negli Stati Uniti è un bel problema. Non sanno
più che pesci pigliare.
Questo è John Kerry: “Il primo emendamento ci impedisce a major bloc.
Noi non possiamo contrastare la disinformazione, il primo emendamento ce
lo impedisce”. La nostra amica Hillary ritiene che la disinformazione
vada criminalizzata, un reato. Un reato. Ci sono ormai studiosi che lo
dicono apertamente: la Costituzione sacra è anche pericolosa perché non
ci consente di impedire la disinformazione. “It’s time to torture the
Constitution”.
Adesso ci divertiamo per chiudere. Questo è un discorso che ha fatto
quest’anno la von der Leyen mentre era in campagna elettorale per farsi
riconfermare Presidente della Commissione. E ha detto questa cosa: “Per
il momento noi abbiamo fatto il debunking”. Cioè, da una parte c’è il
codice di comportamento delle piattaforme, c’è il DSA.
Quello che facciamo è intervenire /ex post/, cioè la disinformazione la
tiriamo giù e poi mediante i nostri agenti a Lavana cerchiamo di
raccontare qual è invece la verità. Facciamo il debunking. Avete
presente Bufale.net, i fact-checker e simili? Quelli lì fanno questa
cosa qui. Lei ha cominciato a dire: “Ma forse è meglio prevenire, perché
la cura, il debunking, non è sufficiente. Non siamo riusciti a impedire
che questa malevola disinformazione circoli”.
non le pensino, così non le condividano, così abbiamo evitato il
problema. Questa cosa l’ha ridetta pari pari nel discorso di
insediamento al Parlamento Europeo. Quando le forze politiche che
l’hanno sostenuta le hanno dato il voto per diventare di nuovo
Presidente della Commissione, hanno concordato su questo punto.
Guardate Ursula, che metafora usa per descrivere il pre-bunking: “Invece
che trattare un’infezione, una volta che si è diffusa – che sarebbe il
debunking – è meglio vaccinare, così la malattia non si diffonde”.
Guardate come funziona il meccanismo della disinformazione.
Questo è il testo del discorso che Ursula von der Leyen ha consegnato
alla stampa. Guardate come funziona il meccanismo della disinformazione
che è fantastico con i debunker, i cacciatori di bufale, eccetera. “Von
der Leyen did not pledge to vaccinate the population against wrong
thinking”. Cioè, io ho trovato, non solo questo, più di un contributo in
cui questi valenti debunker ci vogliono dimostrare che non è vero che la
von der Leyen ha detto questa cosa. Non l’ha mai detto.
E c’è tutta una cosa lunga in cui dicono: “Ma no, in realtà è stato
decontestualizzato”. Decontestualizzato un par di palle. Lo capite? Con
questo meccanismo della disinformazione si può dire e negare tutto e il
contrario di tutto, sempre e in qualsiasi momento, non c’è problema. Si
può negare serenamente la realtà.
Ultimissima notazione. Allora, una delle traduzioni di /misleading/ è
“fuorviante”. Ecco, “fuorviante”, secondo me, è spettacolare per capire
di cosa stiamo parlando. Cioè l’idea che noi dobbiamo combattere la
disinformazione perché è fuorviante ci dice sostanzialmente tutto.
Perché se tu puoi essere sviato, evidentemente c’è una via giusta che
devi percorrere e non sviare.
Quindi la via non la puoi scegliere tu, ce n’è una giusta. Che fai, vai
da un’altra parte? Guarda, la via giusta è questa. Cioè non hai deciso
tu qual è la via giusta, la via giusta l’ha stabilito qualcun altro e ti
sta dicendo: “No, da questa parte non puoi andare, devi andare in qua”.
E chi è che indica la strada giusta? Indica la strada giusta quel
complesso mediatico del mainstream. Quello lì è il simbolo
dell’infinito, potete mettere a piacere una delle infinite notizie
editoriali, infografiche, ingannevoli e fuorvianti che tutti i giorni
trovate su tutti i media mainstream, perché questo è il loro mestiere.
Cioè, io qui, mi spiace che stamattina non c’è Nicita, però basta
prendere un giornale qualsiasi e secondo me sono oggettivamente
fuorvianti. È il loro mestiere fuorviarci, ma soprattutto il loro
mestiere è mantenerci sulla via giusta, cioè impedirci di andare su
strade diverse.
La disinformazione la fanno tutti. Una volta che l’abbiamo costruita e
concepita così, quando cerco di spiegare a mia moglie come mai ho fatto
tardi e non voglio dirle che sono rimasto a chiacchierare con un collega
perché avevo voglia di farlo e mi sono dimenticato di fare la spesa, la
sto disinformando. Lo facciamo tutti i giorni. Non voglio dire che è
normale, ma fa parte, è il nostro modo di comunicare.
La conclusione è che la lotta alla disinformazione non è una battaglia
per la verità, è la rivendicazione da parte di qualcuno del monopolio di
costruire la narrazione. La disinformazione nasce perché, a un certo
punto, non sono più stati in grado di mantenere il controllo della
narrazione. E questa era la banalità che vi volevo raccontare stamattina.
Lo sappiamo benissimo che le cose sono andate così. L’idea è che esiste
una via giusta. La via giusta la decidiamo noi. Non esiste al mondo che
qualcun altro possa concorrere a stabilire contestandola quale sia la
via giusta e quindi dobbiamo trovare tutti i modi possibili per impedire
che questo avvenga.
(Applausi)
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quella volta in due siamo rimasti appesi ad un friend. e ha tenuto.
quella volta in due siamo rimasti appesi ad un amico. e ha tenuto.
matteo della bordella
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Maurizio Lana
Università del Piemonte Orientale
Dipartimento di Studi Umanistici
Piazza Roma 36 - 13100 Vercelli